“Riccardo e Lucia” sabato 21 Teatro G. Perugini penultimo appuntamento con Ormai è Stagione ore 21,00

“Tratto da una storia vera”. Quante volte ci è capitato di aver a che fare con affermazioni di tal genere? Che la verità sia una delle grandi attrazioni del teatro, e non solo, è cosa nota, obiettivo tra i più lungamente e duramente ricercati. Il come (che riguarda sia il tema che la modalità d’espressione) invece lascia spazio all’inventiva personale di ciascun artista. Potrebbe darsi attraverso una poetica naturalista e qui viene in mente, ancor prima che Stanislavskij, il meno noto Duca di Meiningen che già a metà Ottocento si interrogava sul modo di portare la realtà a teatro cercando per i suoi allestimenti oggetti d’epoca, piazzando intere folle sulla scena. Come si traduce ora quello che viene definito dagli studiosi “reality trend”? Alcuni votano per una più moderna estetica iper-reale, lasciando comunque che oggetti del quotidiano – siano essi gli animali e il cibo del teatro di Rodrigo García, o le riprese video degli allestimenti dei Motus – si intromettano nella finzione. Altri lasciano che la biografia e, molto più spesso, che l’autobiografia passi tra le maglie spettacolari quale vissuto raccontato, in forma volontariamente “grezza” o rielaborata, oppure che il “fatto” conservi solo la funzione di stimolo iniziale, ispirazione per la trasposizione a prescindere dal mezzo.
Nel caso di Riccardo e Lucia, scritto e diretto da Claudia Lerro, il tessuto autobiografico è motore di partenza per la costruzione del testo, ma probabilmente è anche spinta affettiva che riguarda più l’autore che il fruitore: lo spettacolo infatti nasce da una rielaborazione delle lettere che il nonno della regista – Riccardo Lerro, poeta e attivista politico del secondo Dopoguerra confinato in Puglia e qui interpretato da Pio Stellaccio – scrisse alla moglie nell’arco di un’intera vita. Il testo parte dalla fine della loro storia con Lucia (Ivana Lotito) in scena a raccontare “la sua ultima passeggiata” nella via principale, quasi un occhio distante che, cominciando dal suo funerale, permette di volgere uno sguardo indietro al loro percorso. Inizia così la storia di un uomo e una donna molto distanti tra loro, uniti dall’amore nonostante le profonde divergenze politiche ed esistenziali. In scena pochi oggetti servono alla creazione dell’atmosfera da abitare: un albero  su rotelle, qualche sedia, una ciotola di farina. Tra questi, fissa è la scrivania dove Riccardo accenna alla scrittura ispiratrice, tra riunioni socialiste e poesie d’amore appena intuite.

Abbandonato il racconto del principio si predilige il presente teatrale a partire dalla giovinezza e dall’incontro tra i due – sempre pieno di un contrasto dolce-amaro – in scene che alternano momenti vissuti a siparietti per lo più mimati e accompagnati da musiche d’epoca. Peccato che questi momenti ironici – nei quali sembra racchiudersi maggiormente la vita familiare e dove le gravidanze sanno di torte al cioccolato e di panni stesi – si scelga di rappresentarli come una sorta di “avanti-veloce”, il quale poco restituisce in questi casi la profondità dell’esistenza altrove espressa. Se non si sente il peso della trasposizione dal formato epistolare a quello drammaturgico, è pur vero che a volte il ritmo fatica a decollare cadendo in stereotipi abusati. Il rischio avverato è che l’attore, a tratti artefice di una buona prova interpretativa, in altri casi lascia che gli eventi gli scorrano addosso e quella naturalezza raggiunta anche grazie all’uso dell’inflessione dialettale viene messa da parte.

Lo spettacolo, del 2011, presentato lo scorso novembre all’interno della rassegna Salviamo i Talenti, è risultato vincitore del premio annesso con conseguente programmazione e produzione presso il Teatro Vittoria in cui ha appena terminato le repliche. Buon risultato in un panorama come quello romano, zeppo di piccole rassegne che più che incentivare sembra vogliano sopravvivere sulle spalle delle giovani compagnie, proponendo spazi a pagamento, visibilità ridotte (la media di tenitura di uno spettacolo sembra non superare le tre repliche), o ingigantendo realtà piccole le quali più che beneficiare di promozione deludono l’aspettativa fuori misura. Tuttavia occorre interrogarsi su cosa puntino questi giovani gruppi, su come e quale sia il fine delle loro operazioni, anche di quelle che ricevono riconoscimenti. Accade un fatto curioso: conoscendo l’origine “veridica” di un oggetto artistico, spesso capita di sorprendersi positivamente, nemmeno l’”elemento verità” aggiungesse per forza un quid in più. È vero che da una storia semplice si può parlare a tutti, che questa possa farsi stemma di una realtà,  quella della Puglia del Dopoguerra, dove il cosiddetto miracolo economico tardò ad arrivare e il peso delle politiche clientelari metteva i bastoni tra le ruote a quanti si rifiutassero di aderire al sistema vigente per degli ideali da difendere. A volte si può semplicemente raccontare, ma è lecito presupporre che dietro quell’intento nato su base personale si celi la volontà di dire altro, di far raggiungere alla prospettiva personale un orizzonte più grande. Allora quale è la differenza tra una storia verosimile, magari inventata, e una vera però romanzata?

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